La Rocca - Roccapelago

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PANORAMICHE
la Chiesa

Quella che fu l'antica fortezza d'Obizzo
Panoramiche

La Rocca del Pelago
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La Chiesa

Dedicata a S. Paolo Apostolo sorse dai resti del castello nel 1585
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ORIGINE DELLA CHIESA DI ROCCAPELAGO

L'origine  della chiesa di Roccapelago si presenta come un intricato problema alla  cui soluzione ha atteso con buona volontà lo storico Bernardino Ricci.
Adriano  Gimorri vede il primo missionario venuto fra i monti del Pelago ad  annunziare il vangelo di Cristo. Donde veniva quell'ignoto apostolo?
Mons.  Pistoni in un suo recente studio sull'origine e la diffusione del  Cristianesimo nell'Alto Frignano ,non esita ad affermare che il vangelo  fu irradiato nel Pelago da missionari provenienti da Modena e ciò fin  dal III e IV secolo. La fiamma della fede splendette innanzi tutto dove  poi sorse la Chiesa madre, la Pieve del Pelago. Flamignatico fu rasa al  suolo nella guerra combattuta fra i Lucchesi ed Obizzo da Montegarullo e  in sua vece sorse Groppo. Riolunato, Tagliole e S. Anna acquisteranno  una collocazione ecclesiale soltanto nel sec. XVII.
Resta  il mistero di Roccapelago, assente in quell'elenco, nonostante la sua  antica origine, e che non figura nemmeno nel giuramento prestato dalle  chiese   del Pelago a Modena nel 1197. Come spiegare la stranezza del  fatto?
Il  Ricci avanza un'ipotesi che il Santini avalla e sviluppa. Il Castrum  menzionato nel documento d'Astolfo avrebbe abbracciato due poli  distinti: il polo  ecclesiastico gravitante  su Pievepelago, sede della  chiesa madre, e il polo politico amministrativo incentrato in  Roccapelago, sede del Castrum feudale. L'assenza di Rocca fra le capellae del Pelago denota che essa ecclesiasticamente era incorporata nella Pieve.

È probabile che vi sorgesse una cappella  feudale dedicata a S. Paolo, la quale formera il nucleo della futura  parrocchia, ma i cataloghi non  la menzionano, per quanto risulti nella  decima del 1299.

Di un'antica chiesa di Roccapelago con castello  esistente prima del 1205 parla il Tiraboschi, « ma » osserva il Ricci « È  la medesima dedicata a S. Maria, che È ricordata nella donazione  d'Astolfo, del cui documento si avvale (il Tiraboschi) per la sua  notizia ».
Quanto al non figurare Roccapelago nel giuramento  prestato a Modena nel 1197, il Ricci ipotizza che il borgo non avesse  ancora raggiunta l'autonomia comunale, a differenza di Pievepelago che  nel frattempo si era eretta in comune. Lo impediva forse la presenza in  loco del feudatario? Può essere, benché in linea di massima i feudatari  non ostacolassero la formazione dei comuni. Ma Rocca non tardò a darsi  un regime comunale: appena otto anni dopo, infatti, nel 1205, essa  figura fra gli altri comuni del Pelago, nella seconda dedizione a  Modena. Anche il Santini pensa che le cose siano andate così. « Entrambi  (i comuni di Pieve e di Rocca) » egli scrive « compaiono nel 1205 con  un solo console, quasi a denunciare una formazione comunale distinta  molto recente ».
Passeranno secoli prima che si trovi menzionata la  chiesa di Rocca. Essa appare per la prima volta, già parrocchia, nella  visita pastorale di Mons. Egidio Foscherari, vescovo di Modena, compiuta  il 17 agosto 1552.
La chiesa sorgeva fuori del fortilizio, nella  località detta anche oggi S. Polo (S. Paolo). Essendo piccola e angusta,  i parrocchiani manifestarono al presule il desiderio di averne una più  ampia e decorosa. Il vescovo non potè che apprezzare questo giusto  desiderio.
Il parroco era don Antonio di Pietro del luogo. La  popolazione ammontava a 600 anime. Vi erano due Compagnie o  Confraternite, quella del Corpus Domini (SS. Sacramento) e quella della  Madonna.


IL MANIERO DIVENTA CHIESA

Esisteva  per gli abitanti di Rocca la possibilità di avere una chiesa ampia e  funzionale senza una spesa eccessiva. Il castello d'Obizzo — centro di  tante lotte e di tante cupidigie — troneggiava ancora sul suo picco  roccioso. Nel 1583, durante la guerra fra gli Estensi e i Lucchesi per  il possesso della Garfagnana, si era trasformato in una grande caserma,  dove erano affluiti i soldati del Frignano, pronti a marciare oltre il  crinale dell Appennino, se gli eventi bellici lo avessero richiesto. Ma  ora era deserto e abbandonato. Il tempo aveva sbiadito il ricordo delle  gesta terribili e sanguinose che ne avevano intessuto la storia. Le  grandi nevicate, i violenti acquazzoni avevano lavato quelle pareti  macchiate di sangue, trasudanti crudeltà. Non una profanazione poteva  essere, ma una riparazione l'adattamento a oratorio di quelle stanze  dove erano risuonate le canzoni oscene e le bestemmie dei soldati  avvinazzati, le piaggerie dei cortigiani ipocriti e versipelle, le  escandescenze biliose del terribile signore. La presenza del Dio della  pace e della mitezza avrebbe santificato quel luogo già impregnato di  spirito antievangelico.
E la chiesa sorse, « cappella espiatoria »,  come la chiama con frase felice Bernardino Ricci. I lavori iniziarono  probabilmente nel 1585, ma andarono alquanto a rilento.
La forma  quadrata del tempio, senz'archi e senza colonne, « fa credere alla  tradizione popolare che il suo vano fosse un dì la sala del castello ».  Il locale sottostante, conteneva la cucina con l'immenso camino. La  sala, già testimone delle feste e della manifestazioni più importanti  della piccola corte, fu ingrandita di due metri dovendosi rifare il muro  a nord.
Opera stupenda è il tabernacolo dell'altare maggiore in  legno dorato, di stile barocco, « con torrette e nicchie che si  equilibrano in bella armonia » (Ricci). Costò 400 scudi (2000 lire  modenesi). Lo fece costruire don Giacomo Stefani nel 1603. A questo  parroco risale anche il rifacimento del coro e dell'altare maggiore,  essendo piccoli e non proporzionati all'ambiente quelli eseguiti in  precedenza.  Altra pregevole opera artistica, ora scomparsa, era il bel  soffitto che il parroco don Francesco Berti fece costruire da Francesco  Guglia di Riolunato nel 1728.
La Chiesa è lunga 28 braccia e larga  17. Così il Bianchi. In computo moderno 17 metri, circa, di lunghezza e  10, circa, di larghezza.
L'organo con sette registri risale al 1722  ed è opera del celebre organaro Domenico Traeri. Dapprima era collocato a  ridosso della parete interna della facciata, ma, per salvarlo  dall'umidità, fu trasportato con la sua tribuna nel presbitero.
Il  parroco don Paolo Coppi nel 1868, per abbassare il pavimento della  chiesa e renderla più spaziosa, riempì le stanze sottostanti con terra  prelevata dal cimitero e in tal modo rese umido il nuovo pavimento in  lastre d'ardesia e cancellò un cimelio storico che avrebbe calamitato la  curiosità dei visitatori, desiderosi di vedere ciò che restava del  celebre castello d'Obizzo.
Il prevosto don Giovanni Biagi dovette far  fronte ai gravi danni arrecati al tempio dal terremoto del 7 settembre  1920. I lavori di restauro, cominciati nell'aprile 1925, finirono il 24  dicembre di quell'anno per usufruire del contributo del 75%, concesso  dallo Stato.
La chiesa fu rifatta ex-novo per tre quarti. Il muro a  nord-ovest venne ricostruito quasi dalle fondamenta. Si sostituì il  vecchio ed artistico soffitto del 1728 con un altro meno ricco e  pregevole ma più sicuro. Le travi furono acquistate all'Abetone, le  tavole di larice a Fiume. Notevoli migliorie furono apportate al coro,  alla sagristia, alla tribuna dell'organo. I tre altari del presbitero  furono fatti in marmo con una balaustra, essa pure di marmo. Dagli  altari posti fuori del presbitero si tolsero le mense che ingombravano  il vano della chiesa, per guadagnare spazio.
Il campanile, come  c'informa un inventario dei beni della chiesa del 13 agosto 1765, fu  eretto « a spese del pubblico ». Contiene quattro campane. La più grossa  ha una storia. Era la campana che ritmava la vita del castello prima  che Obizzo scrivesse le pagine della sua epopea. Chiamava a raccolta i  soldati, suonava a stormo in caso di pericolo, a festa nelle ore liete  della piccola corte. Essendosi rotta, fu rifusa nel 1732 dai fratelli  Bimbi di Fontanaluccia con l'aggiunta di 22 pesi di bronzo, sicché ora  pesa quasi sei quintali. L'adornano alcune figure: l'Annunciazione, le  effigi di S. Paolo e di S. Rocco e una Croce. Reca un distico composto  dal rettore don Berti: « £.0.0. (Bona omnia ominor) — Salvo defendo  doceo fera vulnera curo — Sum maior sed eram bis duo saecla minor —  Frane. Berti R. Ant.us et Ioseph Bimbi F.A.D. 1732 ». (« Auspico ogni  cosa buona — Salvo difendo ammaestro curo le atroci ferite — Sono la  maggiore ma quattro secoli fa ero la minore — Essendo rettore Francesco  Berti, fusero Antonio e Giuseppe Bimbi, Vanno del Signore 1732 »).
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